Meglio essere dipendente o freelance?
È una domanda che se ne porta dietro altre mille e che non ha una risposta univoca. Perché sono tantissime le variabili in gioco, che determinano risposte diverse, anche a seconda del periodo che si sta vivendo. Io ho lavorato come dipendente, assunta con contratto a tempo determinato (rinnovato di tre mesi in tre mesi) e a tempo indeterminato, Co.Co.Co., finta partita iva, freelance con partita iva, regime agevolato e normale.
Ora sono nella fase in cui ho lasciato un lavoro come dipendente per tornare a essere freelance.
Le ragioni sono tante, tutte valide e tutte prioritarie. Ma forse la verità è che, oltre ad avere un carattere difficile (e tanti concorderanno, lo so), ho bisogno che il lavoro mi rispecchi. Per dare senso alla mia vita, per realizzarmi.
Questioni caratteriali a parte, c’erano dei dati oggettivi che mi hanno spinto a farlo, di nuovo. Ho riflettuto a lungo prima di compiere questo grande passo (alla mia età, nel nostro Paese, la pensione, le ferie pagate, e via così…), ma negli ultimi anni ho lavorato talmente tanto, che ho avuto l’impressione di vedere svanire la mia identità.
Nell’equazione work life balance, la vita era scomparsa, c’era solo il lavoro. Durante la settimana era impossibile fare qualunque cosa fuori dall’orario di ufficio (che andava molto oltre l’orario normale), nei weekend ero troppo stanca anche per vedere gli amici.
Anni fa avevo deciso che non volevo vivere così. Perché lo stavo facendo, allora? Perché facevo un bel lavoro? Per lo stipendio?
Mi sono resa conto di quanto sia difficile determinare la propria vita, e di quanto sia più facile farsi trascinare dagli eventi.
Sappiamo progettare il lavoro che vogliamo?
Inizi a lavorare, sei brava, cresci professionalmente, ti arrivano proposte, tutte interessanti, tutte opportunità che non puoi perdere, ma alla fine passi da un treno in corsa a un altro, che corre ancora più veloce. Ma dove stai andando? Perché? Non sai più rispondere.
Ho sempre detto sì, ma forse avrei dovuto dire dei no. Ma per istinto, mannaggia a me, dico sempre si. Eppure, a volte è meglio fermarsi, o almeno chiedersi se si sta andando al mare o in montagna. In Italia, soprattutto per le donne, manca la cultura della progettualità sul lavoro.
C’è ancora un certo pudore. Non abbiamo il coraggio di dire cosa vogliamo, oppure siamo vittime della sindrome dell’impostore.
Non abbiamo gli strumenti per fermarci, fare dei bilanci, pianificare la nostra carriera.
Cresciamo e studiamo con una vaga idea di quello che vorremmo fare da grandi, ma in modo molto naif. Il medico, la giornalista, l’ingegnere, l’architetta.
Non sapendo che un lavoro non è una figura professionale monodimensionale, ma si porta dietro un’infinità di mansioni, ruoli, relazioni, microcompiti che costituiscono un insieme più grande. Infatti, quando si comincia a lavorare, la realtà è molto diversa da quella che ci siamo immaginate.
Ma non abbiamo gli strumenti per fermarci, fare dei bilanci, ripianificare la nostra carriera.
Certo, lo so anche io che c’è la crisi e che il mondo del lavoro in Italia è fermo e non brilla proprio per opportunità. Ma questo ci porta a fare lavori che non ci gratificano, pagati male, in condizioni non proprio ideali (per essere gentile).
Con la minaccia della Crisi, ci accontentiamo di lavori mal pagati o poco soddisfacenti.
Perché uno degli effetti maggiori della crisi è stato questo: dimezzare i dipendenti e far lavorare il triplo chi rimane. È esattamente quello che è successo nel mondo dei periodici.
Redazioni strizzate all’osso, con redattori incollati alle scrivanie, che fanno il lavoro di due/tre persone, collaboratori esterni pagati poco, che per raccimolare la pagnotta scrivono più pezzi contemporaneamente, con risultati approssimativi (tanto poi c’è il redattore interno che mette a posto i refusi, i nomi sbagliati, gli indirizzi…). Basta guardare i colophon delle riviste per rendersene conto.
Non è mai troppo tardi
Due anni fa sono rientrata in redazione perché era un’opportunità. Nuovo giornale, start up, casa editrice prestigiosa… c’erano tutti gli ingredienti per farmi apprezzare l’offerta. Poi è arrivata la tentazione del posto fisso. Lo stipendio a fine mese, fisso, con tasse già pagate, ferie e malattia pagate… Dopo due anni di vita da freelance, aveva l’aspetto della mela di Biancaneve.
Sono entrata nel salotto della comfort zone. Ma il lavoro? Ero soddisfatta? I primi sei mesi non ho fatto in tempo a chiedermelo. La redazione era così ridotta ai minimi termini che non riuscivo a pensare ad altro. Poi la situazione si è assestata. Qualche minuto per pensare l’ho trovato (non troppo, eh) e hanno cominciato a formarsi le crepe.
Ma nel frattempo il salotto della comfort zone diventava ancora più accogliente.
Lo stavo arredando con i miei pezzi di design preferiti e mi sono messa comoda.
Dopo un anno e mezzo anche il design griffato aveva perso il suo appeal. Scalpitavo. L’ho già fatto una volta, pensavo, posso rifarlo, posso tornare freelance. Ma intanto sono passati 4 anni. E i dubbi e le paure hanno cominciato ad assalirmi. Farò bene? Farò male? Sarò in grado?
La voglia di tornare a imparare cose nuove, di sviluppare nuovi progetti ha preso il sopravvento.
Mentre leggevo il libro Donne&Carriera di Mrs Moneypenny (firma del Financial Times), mi sono illuminata sul capitolo 3: Non è mai troppo tardi.
“Molte donne rinunciano alle proprie ambizioni per il più futile dei motivi, scrive: ovvero, è troppo tardi“.
E mi sono ricordata di un pezzo che avevo scritto per Glamour (l’ultimo, prima di licenziarmi. Coincidenza?). S’intitolava La gioia di essere no limits: avevo intervistato alcune donne che per il desiderio di cambiare vita erano riuscite a superare stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi. Non si erano accontentate, si erano rimesse in gioco.
Mi sono ritrovata. E ho deciso di tornare a vivere la mia vita. Tornando a essere freelance.